Felicissima sera
A tutte ‘sti signure ‘ncravattate
E a chesta cummitiva accussi allera
D’uommene scicche e femmene pittate
Chesta è ‘na festa ‘e ballo
Tutte cu ‘e fracchisciasse ‘sti signure
E’ i’ ca so’ sciso ‘a coppa sciaraballo
Senza cerca’ o permesso abballo i’ pure…
intonava Mario Merola in “Zappatore”. Merola, per chi non ha la mia età, era un grande rappresentante della canzone napoletana del passato, in era pre neomelodica. Le sue non erano solo canzoni, ma vere e proprie sceneggiature, anzi “Sceneggiate”. Questo zappatore è un contadino, padre di un figlio che per evadere dalla vita agricola e dal ruolo sociale di bracciante, dopo aver studiato con enormi sacrifici dei genitori, “emigra” a Napoli dalla campagna ed entra in qualche modo nell’alta società, disconoscendo però la sua origine e gli sforzi fatti dalla sua famiglia. Il padre davanti a tale circostanza e alla sopraggiunta grave malattia della madre del giovanotto ingrato, lo raggiunge a una festa chic con il carretto trainato da un mulo (‘o sciaraballo) per dargli la grave notizia e rimproverargli il suo voltafaccia . Entra e canta “‘O zappatore” da cui la strofa succitata.
Un tempo in questo paese esisteva la sinistra. Contava la sostanza e la sua missione principale era la difesa dei diritti dei lavoratori dal disagio sociale ed economico e dall’alienazione. Si viveva in un mondo più semplice perché il mercato del lavoro era più semplice. La massa critica dei lavoratori da tutelare era concentrata nell’industria e la platea a portata di mano (o di sindacato) era per lo più concentrata nelle fabbriche e ciò rendeva più agevole difendere i diritti collettivi. Quegli operai da difendere sembravano ‘o Zappatore di Mario Merola. Erano oppressi, ma tutelati da un mondo politico e sindacale tutto sommato coeso. Poi quel mercato è cambiato e gli eredi di quella sinistra non hanno saputo (o voluto) cogliere quel cambiamento. La crisi dell’industria e automaticamente del sindacato ha trasformato gli operai, archetipo delle masse oppresse, in piccoli commerciati, ristoratori artigiani o comunque partite iva senza o al massimo con pochi dipendenti, ma con la necessità di sopravvivere al fisco, alla criminalità e alle strettoie amministrative. E allora la sinistra si è trasformata nel figlio ingrato di quello zappatore ormai desueto perché non più rappresentativo del disagio di allora. L’industria si è ridotta e con essa il mondo operaio. Tuttavia la sinistra, nata e cresciuta contro il disagio ha poi fatto finta di non riconoscere quello stesso disagio portato da altri lavoratori ai nostri giorni. I nipotini di oggi di quella sinistra di un tempo rifiutandosi di comprendere i veri disperati di oggi, dalle terrazze dei salotti radical preferisce occuparsi di ius soli, voto ai sedicenni e suggestioni color arcobaleno. Il disagio dei bisognosi contemporanei, quelli senza cassa integrazione e tutele sindacali, ma con l’IVA da pagare senza poter lavorare o stritolati da un regime fiscale che di equo ha solo il numero pari delle lettere del sostantivo, oggi a sinistra non viene minimamente considerato, anzi deriso. Una lunga schiera di “illuminati” con l’erre moscia, su social e nei talk show, ridicolizzano i nuovi sfruttati, non più da un padrone che li schiavizza in fabbrica, ma dallo Stato alle spalle di cui questi “barricadero” da tweet o da battuta ad effetto campano. Le Sabina Guzzanti, le Selvaggia Lucarelli, finanche i Michele Serra, i Nicola Zingaretti o pure ex ministri come Vincenzo Visco irridono in interviste, post e dichiarazioni di vario genere, la stessa sofferenza che un tempo la sinistra combatteva (…o illudeva tutti di farlo). I “lavoretti” citati da Zingaretti, quelli dei lavoratori senza contratto che protestano per le chiusure COVID o la Guzzanti che si sorprende dell’attenzione verso i commercianti che a suo dire in buona parte “…possiede appartamenti, macchinone e a volte barche mentre la maggior parte degli artisti vive con lo stretto necessario.” sono il paradigma di questa sinistra. Così come la (presunta) ironia della Lucarelli che afferma: “Quelli di CasaPound sono lì per spiegare ai ristoratori come non pagare le bollette per anni” o l’arroganza descritta da un cinico Michele Serra di chi oserebbe: “…pretendere che TUTTO quello che è stato perduto a causa della pandemia ora piova dal cielo, è abbastanza protervo e parimenti sciocco: la sfiga esiste, per dirla in parole povere eppure ricche di significato. Esiste per tutti, esiste da sempre, così come non esiste il diritto alla fortuna, alla ricchezza, al reddito invariato nei secoli.” Infine la chicca dell’ex ministro Visco che in un intervista al Fatto Quotidiano dichiara che una società che a suo dire si sarebbe “imbastardita” dove “basta che in tv sbuchino una decina di commercianti, disperati, sfigatissimi che naturalmente schiumino rabbia“.
E allora non stupiamoci se la gente scesa in strada perché non lavora da un anno canta ai suoi ex difensori che non vogliono più riconoscerla:
Chi so vuje mme guardate
So’ ‘o pate i’ songo ‘o pate
E nun mme po’ caccia’
So’ nu faticatore
E magno pane e pane
Si zappo ‘a terra chesto te fa onore
Addenocchiate e vaseme ‘sti mmane.