Su Sky tg24 trasmettono un’intervista a uno studente centroamericano, emigrato con la famiglia in Italia. Il ragazzo ventenne racconta in breve la sua storia di straniero nel nostro Paese da tanto tempo e dice che si sente, per questo motivo, italiano. Prosegue l’intervista dicendo che sul suolo italico quasi un milione di persone versano nella sua condizione e che tra essi ci sono tanti bambini. Se la legge non verrà approvata, conclude, lui insieme agli altri, si appresteranno a vivere “una vita di privazione”.
L’argomento, seppur squisitamente politico, in sede legislativa non può essere trattato alla stregua di temi come il ritorno dei Savoia nel nostro Paese o le modifiche di genere al femminile dei titoli istituzionali. Qui, oltre alle opinioni, ci sono in ballo concreti rischi di sovraccarico di una situazione migratoria già drammatica. Un’interessante articolo de il Fatto quotidiano, non certo tra i miei giornali preferiti, in questo caso analizza con attenzione e realismo la situazione internazionale e le possibili conseguenze di una legge simile, in un momento storico come l’attuale. https://www.ilfattoquotidiano.it/2017/06/17/ius-soli-in-italia-ecco-perche-sarebbe-una-follia/3665949/ . Le suggestive immagini del ragazzo dell’intervista di Sky danno la sensazione che la natura del tema sia: “Sei d’accordo a far cessare il rischio di una vita di privazioni a coloro che non otterranno la cittadinanza italiano solo per il fatto di calcare la suola della propria scarpa sul suolo nazionale?” La risposta alla domanda posta in questo modo naturalmente sarà ovvia. Ma il problema è così semplice? Cosa recita l’attuale normativa italiana e cosa prevede il disegno di legge?
L’attuale disciplina: cittadinanza per «diritto» dopo i 18 anni
Al di là di alcune fattispecie particolari come ad esempio il caso di genitori ignoti o apolidi attualmente il cittadino straniero nato in Italia ha diritto alla cittadinanza una volta diventato maggiorenne a condizione che vi abbia risieduto fino a quel momento «legalmente e ininterrottamente» e dichiari entro un anno dal compimento dei 18 anni, di volerla acquisire. Fin qui per quel che riguarda il “diritto”. La cittadinanza può essere invece acquisita per matrimonio (purché in possesso di requisiti resi più stringenti dalle norme sulla sicurezza emanante in questi anni) oppure per naturalizzazione cioè concessa (con Dpr, sentito il Consiglio di Stato), su domanda dell’interessato, a chi risiede in Italia da almeno 10 anni se cittadino extra Ue e quattro se europeo.
Le modifiche in Parlamento: ius soli “temperato” e ius culturae
Il Ddl incardinato in aula introduce uno ius soli temperato con il diritto alla cittadinanza per i figli degli immigrati nati in Italia purché uno dei due genitori sia in possesso di permesso di soggiorno permanente (se extracomunitari) o di permesso di lungo periodo (se comunitari) e dunque sia residente nel nostro paese legalmente e in via continuativa da almeno 5 anni. Ma non solo. Può acquisire la cittadinanza (necessaria la dichiarazione di volontà) il minore nato da genitori stranieri oppure arrivato in Italia prima dei dodici anni quando abbia frequentato nel nostro paese un percorso formativo per almeno cinque anni. Potrà anche chiederla chi non ancora maggiorenne sia entrato in Italia, vi risieda da almeno sei anni e abbia frequento un ciclo scolastico ( o un percorso di istruzione professionale) ottenendo un titolo di studio (o una qualifica).
Una domanda però mi assilla più delle inoppugnabili ragioni dell’articolo sopracitato de Il Fatto: Se uno Stato, nonostante gli sforzi di pochi e illuminati, non è stato in grado di sostenere appieno i diritti dei propri cittadini italiani dalla nascita, e si affretta a includerne altri, (peraltro senza un reale criterio di merito), come può pensare di essere credibile? Sarebbe come come dire: “La diga sul lago sta esplodendo e non so come fare. Vabbè, per ora non ci penso, nel frattempo aggiungo altra acqua al lago…”
Dunque, a cosa si deve questa accelerazione legislativa improvvisa?
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