“Chissà perché dobbiamo sempre usare tutte queste parole inglesi.“ ha detto ultimamente Mario Draghi, con un’insolita autoironia per un Presidente del Consiglio, in un discorso pubblico, dopo aver pronunciato “smart working” e “babysitting”. Certo, sarebbe bello parlare e scrivere più in italiano, ma il mondo con le sue connessioni anglofone da tempo non lo permette.
Mi salta sempre più spesso all’occhio l’accezione “cancel culture” e mentre esploro il Corriere della Sera mi imbatto nella rubrica di Massimo Gramellini Il Caffè.
Premetto che stimo Gramellini, pur non condividendo quasi nulla del suo modo di pensare. Molto tempo fa io, Mr. nessuno, inviai una lettera al quotidiano la Stampa in risposta a un suo articolo sui napoletani, che ritenni per me non accettabile. Scrissi una semplice email a un indirizzo generico della testata, convinto di non ricevere mai riscontro, ma lui rispose con una mail personale, quasi scusandosi per i toni del suo articolo. Lo apprezzai molto. Tuttavia, come nelle migliori relazioni, seppur di superficie, la schiettezza è essenziale.
Tornando ai giorni nostri, Gramellini scrive, sul Corrierone di oggi, un articolo sull’intenzione dell’Università di Oxford di abolire Mozart dai propri programmi di educazione musicale. Motivo: i grandi compositori del passato, «in quanto capisaldi della musica bianca, potrebbero creare disagio agli studenti neri». La questione è che il giornalista, pur con la sua proverbiale ironia, si indigna per tale assurdità con lo stupore di chi ha scoperto per la prima volta quelli che egli stesso definisce “i fanatici di ogni epoca”. Strano, considerando che la cultura della cancellazione è l’estremizzazione di un modo di pensare soprattutto del mondo di sinistra con i suoi veti ideologici alla storia, alle singole persone non allineate al pensiero “giusto”. Seppur vero che l’ondata iconoclasta è operata da fanatici che attaccano monumenti di personalità del passato (Cesare Augusto, Marco Aurelio, Cristoforo Colombo, Picasso ecc.), con scene di delirio e isterismo collettivo, ciò non sarebbe possibile senza una classe accademica, giornalistica o comunque intellettuale, prima ancora che politica, pronta, non solo ad assecondare, ma anche a spacciare giustificazioni concettuali per inquadrare un’ottusa e banale opera distruttrice come un sofisticato effetto collaterale di giustizia sociale. Mi stupisco dello stupore di Gramellini quanto lo sarei nel vedere un bambino sulla spiaggia che prima lancia una pietra e poi ritira la mano. Non so se dopo aver lanciato il sasso dell’indignazione Gramellini ritirerà la mano di fronte ai suoi amici di sinistra, ma liquidare l’idea dei docenti inglesi di Oxford come conseguenza di una bevuta di birra collettiva è un ingenuo tentativo di stendere un velo, molto trasparente, sulle responsabilità reali di una classe pseudo intellettuale e di politicanti (…contrazione di politici farneticanti) radical chic. Cancel culture è un inglesismo, ma molto calzante che però intenderei più come cancellation of culture, solo perché la cultura in generale mette in crisi ogni dogma o inquadramento ideologico. Per questo motivo non è mai gradita nella dialettica del politicamente corretto.