Sono steso sul divano e in dormiveglia guardo il soffitto. Da una finestra aperta rimbomba a volume altissimo il gay pride. La casa si riempie di musica, urla, ovazioni, slogan e penso di essere una noiosa persona comune. Non urlo, non invento slogan, se suono la mia Gibson SG lo faccio a basso volume o in cuffia: al massimo mi rompo i timpani da solo. Quando andavo allo stadio urlavo se segnava il Napoli, oggi lo faccio davanti al televisore, preoccupandomi di non far spaventare troppo il mio cane Green. Sono orrendamente banale, eppure penso di non essere il solo. C’è una moltitudine che abita nella stessa banalità ed è da sempre ai margini di tutto. Isolata dalle rivendicazioni di chi al tempo stesso combatte lo stigma della diversità e alimenta il medesimo stigma verso chiunque non sia come lui o omologato alla sua causa. Siamo tantissimi, la maggioranza, ma nascosti, invisibili. A nessuno viene in mente di organizzare un Pride of ordinary people e per gente ordinaria intendo gente di sinistra, di destra, di centro, del nord, del sud, omosessuali, eterosessuali, transgender, asessuati, progressisti, conservatori, strafottenti, impegnati, disimpegnati, squattrinati, straricchi, comici, tristi, ipocriti, juventini, milanisti e terzomondisti, occidentali e pallidi eschimesi. Tutti stesi su un divano a guardare il soffitto mentre pensano che chi urla per strada, sui social, in Tv se ne fotte di ognuno di loro. Già perché nel nostro modello sociale più amato l’orgoglio è solo di chi sommerge di urla l’orgoglio di chi è davvero diverso, perché isolato nel proprio essere una persona comune. Non importa essere maggioranza per essere segregati. Le idee sembrano non comprimibili, ma lo sono, eccome. Basta isolarle con qualche efficace stereotipo e miliardi di ragionamenti si riducono a un concentrato da levare di torno.
Me ne torno sul divano a guardare il mio soffitto, in attesa che torni il silenzio.