Non c’è sempre bisogno della statistica per farsi un’idea. Le idee sono sempre opinabili proprio in quanto idee. Un metodo, qualunque esso sia, statistico, epidemiologico, più in generale scientifico, purché riconosciuto da una comunità preparata a tale scopo, serve però a capire quanto sia probabile una qualunque osservazione rispetto a un’altra o a tante altre. Se però un’idea è in gran parte basata su un’osservazione altamente improbabile o completamente irreale non è più solo opinabile, ma errata.
Tutta questa noiosissima premessa mi è servita a dire che non era necessario consultare il Censis per capire che gli italiani sono nostalgici del passato, paurosi, invidiosi, rancorosi e meno ricchi di un tempo. La statistica ci aiuta a misurare quanto quelle qualità, siano state invasive sulle scelte politico/elettorali degli ultimi tempi e quanto probabilmente incideranno in futuro. Un articolo de Il Giornale
descrive i risultati di una ricerca effettuata dal Centro Studi Investimenti Sociali sulla, perdonatemi il termine ambizioso, felicità degli italiani a tutt’oggi.
Mi limiterò solo a descrivere i risultati e non i commenti di Gian Maria De Francesco, l’autore dell’articolo; già i numeri suggeriscono abbastanza:
7 italiani su 10 (51% la media Ue, 31% in Germania) sostengono che «si stava meglio prima». Il 60% del campione intervistato nella ricerca sostiene, infatti, che le cose andranno sempre peggio e il 39% non ha nessuna fiducia nel futuro.
La fortuna è considerata il principale fattore di progresso individuale (34%), seguita dalle conoscenze (28%), dai contatti politici (22%) e dalla provenienza da una famiglia agiata (18%).
Sul merito prevale l’invidia: Il 28% degli italiani a inizio anno ha dichiarato che la propria situazione sarebbe migliorata nel corso del 2018 a fronte del 35% che pronosticava un miglioramento per gli altri.
Meno della metà dei cittadini (45%) è convinta che tutti abbiano le stesse opportunità, un valore che in Europa colloca l’Italia al penultimo posto dopo la Grecia (18%).
Il Censis metta in evidenza come tale interpretazione della realtà nasca all’interno di un profondo deficit socio-culturale. Infatti se la tv resta il principale mezzo di informazione (28,7%), oltre la metà degli intervistati collocano al top della classifica dei media Internet (26,7%) e i social network (26,6%). Viviamo nella Repubblica nella quale il posto fisso (39,8%) e casa di proprietà (26,7%) sono considerati prioritari ma che vede emergere nuovi valori fondanti come i social network (27,7%), lo smartphone (25,7%) e il selfie (18,4%) che vengono anteposti nella pubblica opinione a un buon titolo di studio (14,5%).
Quest’Italia ha riscoperto tuttavia alcuni punti fermi come l’identità: 7 italiani su 10 non farebbero sposare i propri figli con persone dello stesso sesso o più anziane di 20 anni, mentre 6 italiani su 10 sono contrari a che la prole si coniughi con persone di religione diversa, in particolar modo islamica. Secondo il Censis, le cause di questa decadenza sarebbero da ricercare nella bassa natalità (dal 1951 a oggi si sono persi 5,7 milioni di giovani) e nella progressiva diminuzione del reddito. Le famiglie giovani (meno di 35 anni) hanno un reddito più basso del 15% della media italiana e una ricchezza inferiore del 41%.
Riporto, a chiosa di questa breve esposizione, solo il commento del Direttore Generale del Censis Massimiliano Valerii a proposito dei risultati della ricerca che rappresenterebbero: «...l’opposto dei miti, dei sogni e dei desideri dell’Italia dello sviluppo e del miracolo economico.»
Avrei voluto commentare i dati, compreso il commento del direttore Valerii con un: «Addà passà ‘a nuttata» ma preferisco, all’indignazione militante, la resilienza alle atmosfere crepuscolari…
E voi?