Gassmann nella finzione è un medico. Un medico che decide di non salvare una persona. Lui è di origine ebraica e mentre sta intervenendo su un uomo che si è sentito male, scopre sul suo petto una svastica. A quel punto i ricordi della sua famiglia e la sua religione gli fanno prendere una decisione che da chirurgo non avrebbe mai preso: smette di aiutare quest’uomo e lo lascia morire.
Questo è l’incipit del film in concorso all’ultimo festival di Venezia che vede Alessandro Gassman protagonista. Non essendo ancora in giro nelle sale non l’ho potuto vedere per cui, ovviamente, sospendo ogni opinione sulla pellicola. Tuttavia l’attore intervistato da Sky ha sostanzialmente affermato che, in un momento di forti tensioni legate alla questione razziale negli USA, il suo film è un atto di avvicinamento tra odii di opposta fazione. Personalmente me lo auguro, ma Gassman non è proprio un artista che fino ad oggi si sia distinto per terzietà e per terzietà non intendo qualunquismo. Le opinioni (e quindi anche le sue) non sono, per me, oggetto di giudizio, ma al limite di discussione e le sue sono schierate da una parte ben precisa, come d’altronde le mie. Il punto però non è ciò che pensa Gassman, ma il suo riferimento alla questione razziale americana. Noi europei probabilmente siamo ai primi posti delle classifiche mondiali per rapidità di giudizio e, a seconda degli esiti, condanniamo o esaltiamo misticamente fatti e circostanze che conosciamo solo attraverso scarse e spesso false informazioni. Diventa uno scherzo infiammare gli animi della piazza con questioni ben al di sopra di una valutazione spicciola di un titolo su un quotidiano o un social. Un uomo afroamericano viene ucciso durante un controllo di polizia e tutti si inginocchiano solo per George Floyd ma si dimenticano di Willy, il ragazzo ammazzato di botte l’altro ieri a casa nostra. Il fenomeno della brutalità delle forze dell’ordine statunitensi è articolato e complesso. Non esistono vere e proprie fonti riconosciute da tutti, ufficiali e terze, che lo misurino ufficialmente. Mi sono preso la briga di approfondire e, da un’articolo de Il Sole 24ore ed uno su L’Inkiesta , ho scoperto che non esiste negli USA un database comprensivo federale che censisca gli omicidi causati dalle forze dell’ordine. A cercare di fare il punto sono iniziative portate avanti da soggetti privati come i progetti Fatal Encounters, Mapping Police Violence, o Fatal Force compilato dai giornalisti del Washington Post.
Che cosa dicono le statistiche sugli afroamericani uccisi dai poliziotti
In particolare, il Mapping Police Violence https://mappingpoliceviolence.org mette a disposizione liberamente i propri dati che riepilogano quante persone sono state uccise da agenti di polizia dal 2013 al 2019. Nel complesso in sette anni la polizia americana avrebbe ucciso 7.663 persone, ovvero in media 1.100 l’anno e circa 0,34 ogni 100mila abitanti. Secondo uno studio del Proceedings of the National Academy of Science of the United States of America, periodico ufficiale della National Academy of Sciences (NAS), essere uccisi durante un arresto da parte di un agente di polizia rappresenta in Nord America la sesta causa di morte per gli uomini di età compresa tra i 25 e i 29 anni appartenenti a qualsiasi gruppo etnico: il rischio annuale calcolato dallo studio è di 1,8 decessi per 100mila persone. Tuttavia il suddetto studio rileva che, rispetto ai bianchi, gli uomini afroamericani sono 2,5 volte più a rischio, le donne 1,4 volte. Per i nativi uomini, il rischio è di 1,2-1,7 volte maggiore, mentre per le donne tale fattore è compreso tra 1,1 e 2,1. Per gli uomini latini, infine, la probabilità cresce di 1,3-1,4 volte rispetto ai bianchi.
A occuparsi di tenere traccia di tali vicende sono il Supplementary Homicide Reports (SHR) dell’FBI e il programma Arrest-Related Deaths (ARD) del Bureau of Justice Statistics, ma secondo uno studio condotto nel 2015 dal gruppo RTI International, tra il 2003 e il 2009 e nel 2011, sia il database dell’FBI che il programma del Bureau of Justice Statistics hanno lasciato fuori dal computo quasi un quarto delle morti causate da agenti di polizia, registrandone solo, rispettivamente, il 49% e il 46%. Proprio per rispondere a tale mancanza di dati, alcune testate internazionali come il Washington Post e il Guardian hanno cominciato negli anni a compilare dei database, tenendo traccia di tutti gli eventi di questo genere. Tra le fonti dello studio citato in precedenza, c’è il lavoro certosino effettuato dal suddetto Fatal Encounters, progetto che si basa sulle notizie riportate dai media, oltre che su rapporti pubblici, su ricerche commissionate e su dati di crowdsourcing.
L’unica certezza è che casi come quello accaduto a Minneapolis sono molto più comuni negli Stati Uniti che in altre democrazie sviluppate. Il fenomeno potrebbe essere legato, tra le altre cose, all’alto tasso di omicidi che caratterizza il Paese – secondo alcuni dati 25,2 volte più alto rispetto ad altri Stati economicamente sviluppati e al diffuso possesso di armi da fuoco. Altri studi https://nleomf.org/facts-figures/officer-deaths-by-year evidenziano come dalla fine del ’700 al 2018, quasi 22mila ufficiali delle forze dell’ordine siano caduti in servizio, poco meno di 6000 dal 1983 (tra i 100 e i 200 all’anno circa), per cui l’ampia disponibilità di armi nel Paese farebbe sì che gli agenti di polizia siano costantemente in allerta, anche se è pur vero che sono numerosi i casi in cui le persone rimaste uccise, come George Floyd, non portavano con sé armi. Su questo quadro incide senza dubbio ciò che viene chiamato dagli esperti racial bias, il “pregiudizio razziale”, che non riguarda solamente le morti degli afroamericani per mano di agenti, ma che si riflette anche nei differenti tassi di arresto e fermo tra gruppi etnici e, più in generale, nelle disparità razziali che percorrono l’intero sistema della giustizia penale americana. Questioni che sono, naturalmente, intimamente intrecciate alla storia di discriminazioni razziali del Paese. Secondo il Sentencing Project https://www.sentencingproject.org gli afroamericani vengono detenuti nelle prigioni statunitensi a un tasso di cinque volte superiore rispetto ai bianchi, tasso che sale a dieci volte in più in cinque stati americani e anche questo è un elemento di sistema, che al di là delle questioni storico/razziali, sembra ben più ascrivibile a questioni di natura sociale. In parole banali, chi ha i soldi per un buon avvocato rimane detenuto molto meno di chi non può permetterselo. Ma tutto questo di fronte alle sommosse americane non sembra avere alcun senso. Una volta accesa una miccia l’esplosione è inevitabile e noi europei a distanza di migliaia di chilometri non sappiamo che scimmiottare ragioni razziali che una folla inferocita nei quartieri delle città americane non può razionalizzare.
Pertanto, prima di motivare i buoni propositi di avvicinare cinematograficamente odii reciproci con inchini e relative dichiarazioni di solidarietà dei Vip radical chic dello spettacolo sarebbe forse più interessante comprendere meglio realtà che non ci appartengono e di cui pretendiamo, nonostante ciò, di essere testimoni forzosi dall’alto della facile indignazione che rende la realtà schiava del semplice pregiudizio.