Partiamo dalla fine: “Ma l’imperatore non ha nulla addosso!”, disse a un certo punto un bambino.”
“Santo cielo”, disse il padre, “Questa è la voce dell’innocenza!”. Così tutti si misero a sussurrare quello che aveva detto il bambino…
Hans Christian Andersen così chiudeva la favola del Re nudo. Una rivelazione quella dell’innocenza che annichiliva il pensiero unico del popolo, terrorizzato dall’essere considerato stupido o non all’altezza di vedere l’inesistente vestito dell’imperatore.
Nessuno in questo Paese sembra disponibile a osservare sé stesso. Quel sé stesso che vive la propria quotidianità reale, quella che poi è la natura autentica di ognuno, non la sua maschera postata su un social. Se viene arrestato un evasore totale con tanto di Ferrari e villa a Montecarlo, ci sentiamo tutti grandi e onesti contribuenti dello Stato, cadendo in una profonda amnesia sui contributi non versati alla badante o sui pagamenti in nero della ristrutturazione della casa al mare. Se una vecchietta viene investita da un pirata della strada, pensiamo di essere il popolo di automobilisti e motociclisti più disciplinato del pianeta. Se un amministratore pubblico viene colto con le mani nella marmellata ci indigniamo, non prima di aver rimosso il ricordo di quando gli chiedevamo con il cappello in mano un favore personale. Ma questi sono solo noiosi luoghi comuni. Nelle pieghe di queste banalità ce n’é una, forse meno comune, la cui narrazione o addirittura la semplice citazione mi atterrisce. Per arrivarci gradualmente parto da una domanda: «In un Paese fondato, più che sul lavoro, sulla cultura del sospetto come mai nell’immaginario collettivo si pensa male di tutto e tutti e non di chi, per definizione, lavora e mangia con i sospetti?».
Ricordo di essermi iscritto a Medicina quando non c’era ancora il test d’ingresso, era il 1982. Da allora, ho comunque dovuto cimentarmi in innumerevoli esami e concorsi per potermi specializzare ed essere assunto nella pubblica amministrazione. Il mio spirito era quello di curare il prossimo nel migliore dei modi, senza compromessi. Poi ho dovuto cambiare idea tante volte, ma il principio è rimasto immutato. Mi chiedo però se questo principio personale da solo possa garantire la mia totale dedizione alla salute degli altri. Unicamente per aver scelto con coscienza di fare il medico e aver sostenuto prove e concorsi, questo basterebbe a certificare la mia buona fede rispetto alle mie intenzioni? In un Paese dove si sospetta che l’AIDS non esista e che i vaccini non servano a nulla sarebbe ragionevole pensare che un medico non sia automaticamente in totale buona fede solo perché dichiara di aver scelto con coscienza di fare il dottore. Noi medici, come le altre categorie di lavoro, non scappiamo alla regola del sospetto, anche in assenza totale di indizi o prove. Non a caso le norme e i contrappesi forniti dalla giustizia supportano la coscienza del singolo a garanzia della salute di tutti.
Solo qualche altra categoria professionale in seno alla giustizia al giorno d’oggi ancora si salva dalla lente d’ingrandimento della vox populi. Quella che ha fatto dell’autoreferenzialità la propria garanzia verso società antiche e moderne. Influenti magistrati affermano che basta la propria coscienza a fornire al popolo sufficienti rassicurazioni di imparzialità e correttezza ed è più che sufficiente per non finire nel tritacarne del sospetto, ma addirittura per cavalcarlo con una veste di immacolata superiorità. Non sarebbe corretto generalizzare. Fortunatamente il sistema giustizia tira avanti tramite uomini realmente coscienti e fedeli al buon senso e alla legge, che servono con la rigorosa applicazione che la Costituzione dovrebbe garantire. Certo, la coscienza è importante, è il presupposto di ogni etica, ma ahimè è personale e, rispondere solo ad essa non è certo da sola una garanzia di principi sani. Se così fosse per tutte le altre categorie, le leggi e le altre regole di convivenza non servirebbero; basterebbero quelle non scritte. Sarebbe sufficiente immaginare in campo medico che gli stessi medici e infermieri potessero oggettivamente prendere decisioni solo sulla base della propria coscienza, in assenza di norme scritte in tema di aborto, fecondazione assistita, eutanasia e senza poter essere criticati o smentiti da nessuno. In una realtà dove basta il sospetto per essere già condannati, ricoprire il ruolo, su mandato dello Stato, di gestore unico dei sospetti e non ammettere critiche né osservazioni, ma solo dogmatiche approvazioni, è deprimente quanto spaventoso. Ci avvicina in un percorso a ritroso verso epoche oscure di metà millennio e non verso un futuro dove la lancetta tra diritti e doveri si auspicherebbe sempre più equidistante. Se poi questa lancetta passa dai cultori della sacra (…propria) coscienza alle urla di un popolo, miope con i propri doveri e iracondo e indignato con quelli degli altri, il rischio è sempre più quello raccontato da Hans Christian Andersen, dell’innocenza del bambino che, unico tra la folla, osservando la nudità del sovrano, urlerà prima o poi anche a questi ultimi: «Ma l’imperatore non ha nulla addosso!».