«Qualunque impressione faccia su di noi, egli è un servo della legge, quindi appartiene alla legge e sfugge al giudizio umano».
Con questa citazione di Kafka calava il sipario della scena finale del film Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto di Elio Petri, con uno straordinario Gian Maria Volontè protagonista. Era il 1970 e sia il regista che il suo attore prediletto Volontè erano ideologicamente e politicamente organici al PCI. Il film, per chi non ha avuto occasione di vederlo, parla di un dirigente della Polizia di Stato interpretato da Volontè che il medesimo giorno della sua promozione a capo dell’ufficio politico della Questura, assassina con una lametta la propria amante nell’appartamento di lei.
Consapevole, ma allo stesso tempo incapace di sostenere il potere che egli stesso incarna, il poliziotto dissemina la scena del delitto di prove e, durante le indagini, alternativamente ricatta, imbecca e depista i colleghi che si occupano del caso. In un primo momento ciò che lo guida è l’arroganza di chi confida nella propria insospettabilità, ma via via egli viene smentito dai fatti. Il poliziotto, in virtù della vittoria dell’ordine costituito, finisce per agognare la propria punizione, che tuttavia gli viene preclusa dal suo potere e dalla sua posizione. Il protagonista oramai deciso sulla sua posizione autopunitiva, consegna una lettera di confessione ai suoi colleghi, e si auto relega agli arresti domiciliari. Con l’arrivo dei pezzi grossi della Polizia, lo attende il vero finale che non viene però svelato dal regista ed è lasciato in sospeso.
Bene, la denuncia del film era ben chiara: riflettere sui meccanismi del potere precostituito, e sull’immunità di chi lo esercita. Il giornale dell’epoca Lotta continua sulle sue colonne esaltò il film, addirittura identificando nel protagonista il Commissario Calabresi e persino il Corriere della Sera santificò la pellicola con il giornalista Giovanni Grazzini che scrisse:«[…] un importante passo avanti verso una società più adulta, tanto più sicura di sé e della democrazia da potersi permettere di criticare istituti tenuti per sacri […]».
Dopo cinquant’anni il mondo non è molto cambiato. La realtà oggi come ieri a volte supera la finzione. Gli “istituti tenuti per sacri” continuano a esistere e a condizionare la vita sociale. Le ultime notizie che solo per cronologia seguono quelle del caso Palamara, ci indicano possibili esistenze di apparati segreti all’interno della magistratura per condizionare nomine e poteri. Tuttavia qualcosa è cambiata. Nel 1970 chi denunciava era la sinistra insieme alla carta stampata, oggi chi sta in silenzio o addirittura protegge quel sistema è la medesima sinistra con la stragrande maggioranza dell’editoria giornalistica italiana. Il mondo è strano perché all’epoca (…ma anche oggi) l’unico modo di descrivere in astratto un potere era definirlo fascista o di destra o anche democristiano. Si è andati avanti così per decenni e tale semplificazione ha aiutato il mondo della sinistra italiana a sbarazzarsi dei legacci ideologici, senza abiurarli, e a occupare militarmente quei poteri che un tempo combatteva. Oggi la grande editoria, insieme a tutto il mondo di sinistra, non hanno alcun interesse a denunciare ciò che loro hanno causato in decenni di leadership sul potere giudiziario e sul quarto potere, quello mediatico. Paradossalmente chi combatte contro le gravissime distorsioni giudiziarie in atto nel nostro Paese sono gli stessi che un tempo, ma anche oggi, vengono definiti reazionari, fascisti, liberticidi semplicemente perché non vicini al mondo delle sinistre. Peccato che, per incarnare fattivamente questi inquietanti aggettivi, il potere lo si deve possedere, ma chi lo possiede da decenni e quasi sempre senza esserselo guadagnato? A voi la risposta…