Non amo Michele Serra, l’ho scritto più volte e non mi dilungherò sui perché, ma di fronte a questo suo post, non posso che togliermi il cappello. Qui non è questione di ideologia, partigianeria o obiettività; nelle sue parole c’è quella sensibilità che ognuno nasconde, forse per un’immotivata forma di pudore, sotto diversi centimetri da noi stessi. È del tutto inutile spiegare certe evidenze e insistere a farlo sarebbe pure dannoso. La capacità delle donne di sovrastare il dolore è cosa risaputa, ma la dote di trasformarlo davanti alla morte in poesia è qualcosa che solo la rozza distrazione maschile non riesce a percepire. È del tutto inutile esorcizzare la paura più grande per definizione con ogni mezzo razionale, semplicemente perché il problema non è la razionalità. Nella descrizione dei saluti delle vedove ai loro amati, descritti da Serra, c’è la sintesi di come solo una donna, con il suo essere tale, sappia affrontare l’ombra della propria angoscia con il bagliore della vita, della natura e del senso di esistere, alla faccia delle tenebre dentro e fuori ognuno di noi. Saper accompagnare chi si ama fino alla fine, ma anche dopo, non è cosa maschile. Noi siamo meno portati alla sobrietà e alla sintesi poetica di fronte al trapasso di chi vogliamo bene. Semplicemente soffriamo, sempre avvitati su noi stessi. Possiamo star male in silenzio o piangendo, ma comunque lo facciamo urlando, forse nell’ennesimo tentativo di attirare l’attenzione su di noi e sulla nostra incapacità di venirne a capo. La dimestichezza, descritta da Serra, delle donne con la morte non è solo resistenza, ma talento nel vedere un “oltre” che annulla il vuoto di chi se n’è andato e lo trasforma in materia fatta di luce, luoghi, oggetti. Cose reali che annullano d’improvviso il niente e lo trasformano in presenza, attraverso ciò che si può vedere, toccare e amare ancora. Non ho mai apprezzato la dialettica sui generi, ma su questo argomento è inutile discutere: chapeau a Serra e a tutte le donne… in quanto donne!