Tratto da “Non è sufficiente vivere la vita: bisogna pensarla.” di Marcello Veneziani http://www.marcelloveneziani.com/il-giornalista/atlante-delle-idee/non-e-sufficiente-vivere-la-vita-bisogna-pensarla/
“Guardiamoci negli occhi e chiediamoci: ma che razza di vita stiamo vivendo? Ho capito, il mondo di ieri è finito. Ma questa variazione continua di vita, di sesso, di affetti, cos’è, dove porta? Questa vita fondata sul cesso, prima persona del verbo cessare… cessare d’essere in un modo per diventare un altro.
Lascio il piano morale, non entro nel piano religioso, mi fermo sul piano esistenziale.
Il dogma assoluto della nostra società è semplice e categorico: la vita va vissuta. Ogni lasciata è persa, ogni desiderio negato è una perdita di libertà; niente e nessuno ti ridarà o ti compenserà quel che perdi o rinunci a fare.
Cogli l’occasione, prova, divertiti. Vivi pienamente più vite; se non c’è l’eternità, datti alla varietà, e alla variabilità. È questo il canone universale, arrivato pure in provincia, come il digitale terrestre.
Ma possibile che non ci sia nient’altro, nessuna alternativa; che razza di libertà è questa se c’è una sola risposta in automatico e il resto è considerato solo regressione-repressione-restrizione?
Allora provo a tracciare una linea e a dire che accanto al dogma «la vita va vissuta» ci può essere anche un’altra scelta: la vita va dedicata.
Ecco, dedicare è la parola giusta. Dedico la vita a qualcosa, a qualcuno, a qualcosa e qualcuno insieme, a Qualcuno. Come si dice per le canzoni, questa la voglio dedicare a… così, una vita dedicata a persone, a imprese, a creazioni, arti e mestieri, a paesi e mondi, dedicata a valori e ricordi, al sole e al mare, agli dei o addirittura a Dio.
Non una vita dedicata a se stessa, ma a qualcosa che la riempia. Perché non bastano una o più vite vissute, ci manca una vita dedicata.
Una vita senza dedica, senza dedizione, è una vita fessa, oscura, che alla fine nemmeno è vissuta, ma è quasi subìta, decisa dalle occasioni e dagli impulsi.
Per dedicarla devi essere convinto di una cosa: ciò che facciamo lascia comunque un segno, non scivola e sparisce tutto, ma di tutto resta invece una traccia. Niente va perduto. Accanto agli esiti visibili ci sono pure quelli invisibili.
È fesso vivere senza progettare la vita, senza tendere a un amore, a un disegno intelligente. Certo, una vita dedicata può essere anche una vita vissuta. Ma in quel continuo vivere e cessare dov’è l’unità della persona, in quel farsi vivere dai desideri dov’è finito il cuore della vita, e l’anima, cosa resta alla fine di noi?
Non dico quando si muore, perché qualcuno potrebbe dire chi se ne frega dopo morti; dico di noi adesso, a fine serata, quando pensiamo la vita anziché viverla soltanto…”
Sono un ammiratore di Marcello Veneziani giornalista e saggista. La sua prosa e i suoi argomenti sono spessissimo anche i miei, anche se, per raggiungere i suoi livelli, di strada ne dovrei fare troppa. A volte non condivido ciò che scrive come nel recente suo articolo sui vaccini, o meglio non mi è piaciuta la scansione delle sue domande provocatorie circa lo scibile scientifico sull’immunizzazione attiva e forse mi dedicherò più avanti a questo. Invece, a proposito di un’altro suo articolo di repertorio su tutt’altro argomento, postato sul suo sito e pubblicato il 3 agosto 2010 su il Giornale, ho deciso di scrivere un commento. Ho atteso un po’ prima di farlo; temevo di affrontare con banalità o, al contrario, con troppa saccenza, (…nel mio caso mal riposta), un argomento super generalista: il senso di noi e in particolare di me stesso, ponendomi come cavia del mio ragionamento. Ho deciso di fregarmene di come sarei sembrato ai due o tre lettori che mi seguono e ho scritto senza remore ciò che mi passa per la testa.
Intanto devo affermare che le parole di Veneziani, dalle quali ho estratto la sintesi di cui sopra, almeno con me, hanno decisamente fatto centro. Come tanti ho sempre pensato, con grande e consapevole egoismo, che vivere pienamente la mia esistenza o più vite fosse la principale terapia alle crisi di qualunque tempo generazionale. Lo penso ancora, ma dopo aver letto quell’articolo mi sento semplicemente più sereno. Certo, l’efficacia delle parole soprattutto se spese bene fa miracoli, ma forse c’è dell’altro. Non discuto l’importanza di una vita dedicata unicamente a se stessi; quella rimane il più inflazionato baluardo contro l’auto disistima e non intendo esprimere giudizi. Il viatico a al senso di serenità provato nel leggere le parole di Veneziani me l’ha dato la via d’uscita dal labirinto della sublimazione unica e totale della propria esistenza, quella sublimazione dedicata esclusivamente al benessere di sé stessi. L’idea che quest’ultima fosse l’unica prescrizione esistente in terra ai numerosi momenti critici di una vita intera quasi mi soffocava. Pensare di non avere sbocchi alternativi dal: “…cessare d’essere in un modo per diventare un altro.”, pur se affascinante in termini di soluzione, mi faceva sentire schiavo dell’impellenza di vivere l’attimo fino al midollo ed esaurito quest’ultimo viverne un’altro e poi un’altro fino alla mia pacifica dipartita. La necessità invece, non solo di una o più esistenze spremute fino alla fine, ma almeno di una di esse dedicata a qualcosa, a qualcuno, a Qualcuno (…o tutto questo in plurime combinazioni), mi ha dato più fiducia. Tale angolazione alternativa aiuta a immaginare una valida chance al semplice utilizzo dell’esistenza: quella del riempirla di qualcosa. Magari qualcosa che superi la caduca gratificazione che si percepisce consumandosi per migliorare l’involucro esterno della propria vita. La prospettiva che tutto ciò che facciamo lasci qualche esito, anche se invisibile, è già un buon motivo per non riservare tutto solo ad essa, (o alle nostre innumerevoli esistenze nate e cessate), ma anche dedicare qualcosa non necessariamente di sé stessi per non avere un’unica e sempre provvisoria scelta: una vita fondata sul “cesso”…prima persona del presente indicativo del verbo cessare.