“Uno sta a inventare una medicina contro la caduta dei capelli e contro il dolore in un Paese dove uno senza capelli dice che la via della salvezza è il dolore.” disse uno strepitoso Troisi in: “Le vie del Signore sono finite”. Non era tra le sue pellicole la più memorabile, ma la sua interpretazione di un malato immaginario, a mio parere, è stata straordinaria. Così come era perfetta la parte di Marco Messeri che passava la sue giornate ad accudire l’infermo psicosomatico. Messeri, alias Leone nel film, deve prendere atto che suo fratello Camillo, alias Troisi, non è veramente paraplegico, poiché quest’ultimo dopo uno scossone emotivo ritorna a deambulare regolarmente. Per questo Leone viene colto da un’acuta crisi esistenziale; scopre che la sua vera ragione di vita in realtà non è il fratello, ma la sua malattia immaginaria. Non poterlo più accudire equivale a perdere il suo unico e solo scopo. Così come alcune neo-femministe temono di fare quella stessa fine affrancandosi dai loro cliché retorici e rivendicativi di epoche ormai superate da più di quarant’anni. Ormai persa l’immagine della donna vittimizzata, il terrore peggiore è perdere la ragione dei propri slogan. I tempi sono cambiati che piaccia o no. Il ruolo della donna almeno nel mondo occidentale si è trasformato. È innegabile che le barriere sociali, un tempo oggettivamente limitanti, sono state elaborate e superate dalle società civili e non certo a colpi di frasi fatte e simbolismi vaginali. Chi ancora oggi cavalca la vicenda della figlia di Dario Argento patisce il complesso mostrato da Messeri, alias Leone, nel film di Troisi. Soffre di una sindrome nostalgica di quel passato che a colpi di frasi fatte (e realtà imposte) non produce altro che il rimpianto di quando il genere femminile stava peggio. I veri nemici del cambiamento delle donne nel mondo attuale sono proprio quelli che solidarizzano con quella retorica di genere. Pleonastico ricordare chi tra i politici (e soprattutto le politiche) di turno ipertrofizza la questione Argento come se quest’ultima fosse la madre di tutte le vittime di abusi. Mi appassiona poco la vicenda in sé, non per indifferenza al tema. Al contrario è proprio la mia attenzione a quel tremendo capitolo della storia umana ad allontanarmi da quella precisa vicenda. Al di là della sfera emotiva della persona che per definizione nessuno può commentare senza cadere nel facile pietismo, non credo che quel caso tra tanti sia così paradigmatico. La “vittima” non era una precaria di una ditta di pulizie, orfana, single e straniera. Non era una prostituta minorenne minacciata di morte quotidianamente e venduta dai suoi aguzzini a psicopatici senza scrupoli. Non era una persona qualunque, una casalinga maltrattata dal marito geloso, un’impiegata, un’autista di bus, una netturbina, una semplice soldatessa dell’Esercito, una piccola commerciante di periferia. Non era un’anonima commercialista, una dottoressa, medico di famiglia di provincia, una direttrice di banca su un’isola sperduta nel Mediterraneo, un sindaco del Comune più piccolo d’Italia, o anche un’attrice di “b movie” senza parenti famosi e amicizie influenti. Lei non ha denunciato di essere stata aggredita e stuprata sull’asfalto di un vicolo da un oscuro “sex offender”, come tante costrette dalla vita a tornare a casa la sera tardi, dopo una difficile giornata di lavoro per sbarcare il lunario o semplicemente per vivere del proprio stipendio o della propria attività. Lei, e tutte le altre sue colleghe VIP, sono persone che dopo diversi anni hanno deciso di denunciare un’altro VIP, accusandolo di molestie e in alcuni casi di veri e propri stupri dopo aver ricevuto e accettato inviti dal presunto stupratore, già noto in quell’ambiente per le sue “attitudini”. Stiamo parlando di persone che all’atto del misfatto, visti i rischi consistenti, oltre a poter rifiutare quegli incontri hanno avuto a cose fatte almeno la possibilità economica e sociale di affrontare il proprio disagio, con avvocati di grido, intere testate giornalistiche, psicologi, ginecologi, psichiatri e ampi entourage di cui si circondavano e si circondano quotidianamente. La loro scelta all’epoca dei fatti era optare per la propria dignità denunciando il fatto o rinunciarvi praticando il silenzio a oltranza per evitare l’ostracismo dal mondo dei famosi. E tale scelta pare sia stata fatta da tutte quelle che fino a ieri non hanno fiatato sulle violenze subite, salvo cambiare idea dopo qualche decennio. Rammento che non stiamo parlando di donne africane migranti, senza alcuna difesa, segregate in Libia in balia delle milizie di turno. Evidentemente qualcuno ritiene di offrire un buon servizio a queste ultime con l’appoggio e la propaganda del lamento tardivo delle star holliwoodiane, reinventandosi il gesto della vagina in un mondo che di generi sessuali disgiunti dall’essere persone non sa proprio che farsene perché a contare sono sempre più gli uomini intesi come genere umano e la relativa dignità di essere persone a prescindere dai cromosomi…finalmente.