Disagio, non saprei come definirlo altrimenti. Me ne faccio una ragione solo quando risalgo alla vera origine del mio malessere che, come spesso accade, non risiede solo negli argomenti e nella forma espressa da chi li sostiene.
Muore Dario Fo e con agghiacciante normalità partono le posizioni dei pro e dei contro il personaggio. Non riesco a comprendere il perché, nonostante il suo attivismo ancora forte, uno scontro del genere non abbia preceduto la sua dipartita, direi serena visti i suoi novant’anni suonati. Le sue tribune pro grillismo hanno supportato le ragioni pentastellate con le modalità più consone alle medesime: da vero guru. Ciononostante nessuno è sembrato essersi accorto di questo suo cambio di rotta ideologica degli ultimi anni. Non è la prima volta che un “messia” dell’ultrasinistra si cimenta in lodi sperticate verso movimentismi di vario genere e provenienza. Anche Toni Negri, in tempi di successo popolare leghista, aveva apprezzato in un’intervista rilasciata alla RAI, girata presso la sua affascinante maison parigina, la ventata “rivoluzionaria” delle camice verdi allora ancora governate saldamente da Umberto Bossi; un tempo di diversi decenni prima si sarebbe detto “La fantasia al potere” e meno male che gli intellettuali storici della gauche raffinata, di fantasia ne hanno sempre avuta da vendere.
Tornando a Fo non riesco che a definire agghiacciante la normalità di questi giorni per il mare di argomenti armati a favore e contro l’eclettico personaggio.
Visto che, con tutto il rispetto per il loro lavoro, anche le veline di Striscia la notizia, hanno espresso la loro personale posizione su Dario Fo, come è giustissimo che sia ( …e con buona pace di Umberto Eco buonanima e dei suoi strali contro l’ignoranza del web), non dirò cosa penso e pensavo di lui, considerato che la cosa non interessa a nessuno e raccontarlo non importa certamente neanche al sottoscritto, tuttavia mi sento di fare alcune considerazioni sulla cronaca di ciò che sta avvenendo.
Partirei per esempio dal dolore di un figlio per la morte di un genitore. L’età avanzata e la vita pienamente vissuta di un padre, si sa, non attenuano minimamente la sofferenza dei figli dopo il suo trapasso. Si soffre e basta. A mettermi a disagio è tuttavia l’uso opportunistico e di parte che altri fanno delle reazioni disperate di chi non può farsi una ragione per un lutto così intimo. Su un profilo fb linkato con una pagina web di Rifondazione Comunista http://www.rifondazione.it/primapagina/?p=25844 leggo le dichiarazioni di Jacopo Fo sulla faccenda di suo padre definito, ex ragazzo della Repubblica di Salò, riportata su molti quotidiani, storia peraltro nota da sempre. È un’accorata memoria difensiva sulla posizione del papà, non tanto diretta a “imperialisti” “reazionari”, “fascisti”, “plutocrati”, “massoni”, “paleo democristiani”, “ex socialisti” e qualunque altra categoria considerata insultante abbia mai potuto mettere in giro quell'”infamante calunnia“, ma al popolo di sinistra, quello che, dopo aver alzato orgogliosamente il mancino al funerale laico del compagno Dario, insolitamente celebrato in un santuario della cristianità, si è sentito sprofondare in un baratro.
La cronistoria della famiglia Fo, a partire dai suoi bisnonni, viene sbandierata nell’articolo per affermare l’appartenenza alle radici rosse fin da tempi non sospetti, come chi espone il proprio pedigree nobiliare di famiglia per dimostrare le sue origini blasonate, negate da qualche malevolo per qualche errore di gioventù. Le parole del figlio Jacopo suonano in quell’articolo come un’affannata giustificazione, probabilmente anche con spunti veritieri miscelati a elementi suggestivi, di un fatto del passato, prima negato, poi ammesso e giustificato da quest’ultimo con: “…E, anche se fosse, aggiungo io, sarà mai possibile ridurre tutta una vita straordinaria spesa in larga parte per il prossimo, l’immensa opera di un grande artista che gli è valsa il Premio Nobel per la Letteratura, a un errore di gioventù?“.
Nel suo gesto di figlio c’è solo il disperato tentativo di difendere ai suoi occhi e a quelli dei compagni delusi l’orgoglio di suo padre, ma per chi utilizza le sue accorate parole l’obiettivo è fare propaganda diretta a somministrare ai militanti l’ennesimo mito, utile solo a credere, ubbidire e combattere, (…ma dal lato opposto), negando una personale realtà storica che, da qualunque punto di vista la si voglia vedere, rimane semplice realtà. Aver partecipato a una guerra civile sessant’anni fa, a qualunque titolo, anche da imbianchino, è un dato storico e null’altro. Non ci si può vergognare o inorgoglire per aver fatto parte di una fazione o l’altra o per aver mutato il proprio orientamento ideologico. L’effetto del tempo è inutile da contrastare e ogni tentativo di resistenza risulta solo una patetica dimostrazione di finta coerenza (…che fa spesso rima con prepotenza), sbandierata come virtù da chi ritiene intoccabili in eterno le proprie convinzioni.
Tuttavia, con la freddezza risolutiva tipica di chi ama affrontare e risolvere ogni questione ideologica, etica e soprattutto politica attraverso i tribunali, viene inserita a piè di pagina, la citazione della sentenza penale di condanna in appello contro i giornalisti che lo avrebbero diffamato (…il condizionale sarebbe d’obbligo visto che quei giornalisti erano stati assolti in primo grado e che esisterebbe anche un terzo grado di giudizio non ancora celebrato) per averlo chiamato “repubblichino” e “rastrellatore“, citazione inserita a margine della lettera di Jacopo con il chiaro intento di riassorbire le stimmate infamanti appioppate a un “vero eroe del popolo”.
Ed ecco la normalità che atterrisce, quella del pensiero unico che va oltre il lutto e pretende di innalzare a eroi uomini che eroi non lo sono mai stati, pur pensando di meritarselo. Uomini che, con l’astuzia tipica dei giullari, hanno mostrato agli altri di dileggiare i tiranni spesso confondendoli con gli eroi veri, per poi beffardamente diventare anch’essi mito sulle pagine del web, e nell’immaginario di un popolo asservito non all’arte, ma al conformismo ideologico. Sentirsi eroi e martiri della censura, in un Paese che censurava pure Domenico Modugno per la canzone “Resta cu’ mme” a causa dei versi “nun mme ‘mporta d’o ppassato / nun mme ‘mporta ‘e chi t’ha avuto…“, che cozzavano contro la putibonda moralità nazionale, fondata sulla verginità e sulla mostra pubblica delle lenzuola dopo la prima notte. Dario Fo se ne andato serenamente, in una situazione di tranquilla agiatezza, confortato dall’abbraccio dei propri cari, a novant’anni e nel proprio letto. Questo è essere mito.