«Chest’è…» Dopo una vita di ricordi, pezzi interi di noi che abbiamo condiviso, momenti del passato rimasti impressi come statue di marmo imperiali e poi dei conoscenti davanti alla chiesa che si salutano distrattamente di fronte a un feretro. «Michè, ma chest’è?» è ciò che Massimo, fratello acquisito di sempre, mi ha sussurrato al telefono parlando di un nostro amico scomparso da poco. Ancora oggi questa sua domanda, intrisa di una disperazione composta, quasi rassegnata, galleggia nella mia testa: «Chest’è?» Mi piacerebbe urlare che niente può cancellare la nostra storia, fatta di vissuti totalizzanti tra gli anni ‘70 e ‘80 e che il tutto di quegli anni è talmente vasto da non poter essere ridotto a qualche saluto, a delle lacrime sfuggenti, o a frasi di circostanza pronunciate per paura del silenzio davanti a una chiesa. Vorrei ribellarmi e voltarmi dall’altra parte solo per rifiutare tutto questo, ma chest’è. Solo la lingua napoletana può in sei lettere, un apostrofo e un accento concentrare un baratro infinito di consapevole tristezza. Allora, caro Massimo, va bene, chest’è! Questo poco che resta è pur sempre qualcosa, anche se porta solo un lontano odore di ciò che eravamo. Un profumo, anche se sfumato, che rimane di noi a quel tempo e permane tutt’oggi, ma nascosto dentro, discretamente, come il nostro sorriso che doveva seppellire il mondo di allora.
Ciao Marco