L'uomo dei cinque palloni

Ho caldo, è mezzanotte e due minuti. Mi rigiro sulle lenzuola come un coccodrillo che si avvita nell’acqua mentre digerisce il pasto. Ho giurato a me stesso di non contribuire all’intasamento del web in momenti come questi ma non ho mantenuto la promessa. Sono passati alcuni giorni dalla tragedia e pubblico alcuni pensieri che voglio condividere.

Si sa, il web amplifica tutto o quasi. Le persone si dilatano in rete come la superficie di un palloncino. A proposito, mi torna in mente l’episodio, rimasto leggendario per gli amanti del cinema italiano d’autore, nel film Oggi, domani, dopodomani: L’uomo dei cinque palloni, regia di Marco Ferreri. Mario, industriale milanese, interpretato da un giovane Marcello Mastroianni, è alle prese con una sua originale ossessione: vorrebbe assolutamente conoscere la quantità massima di aria necessaria a gonfiare un palloncino prima che esploda. L’illogicità dell’impresa non farà altro che stimolare la sua compulsione nel gonfiare continuamente palloncini, in ogni istante della sua giornata, fino a farli esplodere; una nevrosi che lo porterà al termine dell’episodio al gesto più estremo.

L’aumento della visibilità di ognuno attraverso i social mi ricorda da un lato la compulsione di Mastroianni, alias Mario, nel continuo pompaggio della propria immagine in rete attraverso un presenzialismo ossessivo, costante, come se l’esserci a tutti i costi sia una sfida al tempo racchiuso nelle ventiquattr’ore: guai a non comparire in ognuna di esse. Dall’altro lato evoca la dilatazione progressiva del “sé stesso” da somministrare agli altri, proprio come le dimensioni dei palloncini di gomma gonfiati dal protagonista. Se commento un fatto eclatante, la mia immagine sarà proiettata in modo altrettanto grande.

Centinaia di morti, intere comunità spazzate via dalla natura e dalla struttura architettonica degli edifici. Dolore, sofferenza, terrore. Mi sarebbe piaciuto lasciarmi trascinare dalla rete ma l’unica necessità di cui ho avuto bisogno in questi giorni è stata il silenzio. Non quello cupo, sordo, avvertito dopo una scossa sismica, ma quello di chi, per mestiere o volontariato, con le maniche rimboccate, parla a bassa voce per sentire i lamenti di chi sta sotto le macerie o apre la bocca solo per comunicare con chi sta lavorando al suo fianco per rimuovere i detriti, curare i feriti, confortare gli sfollati, coordinare i soccorsi. Tutto il resto è solo rumore inutile. Lo stesso rumore che fuoriesce dal palloncino, dell’aria proveniente dai polmoni di Mastroianni mentre lo sta gonfiando e che si palesa per avvisare tutti della propria inutile futilità.

Il sismologo divulgatore e presenzialista strepita sui social a poche ore dal disastro che, “se le case fossero state costruite come facevano gli antichi, che le cose le facevano perbene, non avremmo avuto conseguenze sulle persone. Basta vedere il Giappone”, senza considerare che nella storia lontana e vicina intere città costruite “all’antica” sono stato rase al suolo da terremoti e a volte ricostruite, in alcuni casi altrove. Senza andare tanto lontano, il centro antico dell’Aquila, che certo non è stato edificato negli anni ’60, è stato completamente devastato dal sisma di qualche anno fa.

Il giornalista, direttore di testata, rivendica la sua battaglia contro “gli avvelenatori del web” che “fanno del male a tutti”, distinguendosi evidentemente da questi ed esponendo in rete il proprio primato di solidarietà attraverso la sua raccolta di fondi per i terremotati. Indignato per l’esistenza di un mondo diverso dal suo, (…o ingolosito dalla ghiotta occasione di auto promuoversi in un suo momento di stanca in tema di notorietà) urla contro chi vorrebbe sfrattare gli immigrati dagli alberghi per alloggiare i terremotati.

Indignati, più o meno opportunisti, che si scagliano contro altri indignati, attraverso il tipico segno distintivo dell’indignato: prendere le dovute distanze da ciò per cui ci si indigna.

I giustizialisti reattivi, quelli che ipotizzano condanne, prima di capirne i reati, immaginandone, con la propria etica personale, di nuovi ma estranei al codice penale, sentenziano, preferibilmente quando le persone vive sono ancora da estrarre dalle macerie.

Vorrei indignarmi pure io, mi sforzo il più possibile, neanche mi trovassi seduto nel luogo più meditativo della storia, ma non saprei per cosa. Per la sorte avversa? Per la natura e l’energia geotermica, esplosa tutta in una volta inaspettatamente? Per l’esistenza della notte, vista l’ora ricorrente dei terremoti? Per la certezza della morte che non dovrebbe esistere, ma che ostinatamente continua a flagellare gli esseri viventi? O forse per l’incombenza della vita la cui incertezza si culla sul precipizio dell’unica certezza citata nell’auto domanda precedente.

Qualcuno osserverà che l’esistenza di edifici antisismici avrebbe ridotto o annullato le probabilità di soccombere. Tutto questo è naturalmente corretto sul piano di una realtà che non si è palesata nonostante le mappatura delle zone ad alto rischio sismico diffuse da anni dagli esperti.

Come chiunque anch’io sono più incline a fornirmi da solo risposte, magari camuffate da affermazioni a effetto, prima di pormi domande; le risposte danno la sicurezza che le domande non forniscono, e allora mi metto l’anima in pace con una bella certezza pontificando su cosa si sarebbe dovuto fare (…preferibilmente riferendomi agli altri) per evitare il disastro. Le ragioni della natura impattano con quelle di chi avrebbe dovuto realizzare scelte difficili, esponendo questi ultimi all’indignazione di chi non si pone domande perché convinto delle proprie certezze.

“Se chi doveva non ha messo in sicurezza gli edifici nelle zone ad alto rischio idrogeologico è un criminale, forse ha pure rubato e ora si sta godendo i soldi pubblici su un’isola ai tropici.”

E se non fosse sempre così, anzi se così non fosse nella maggioranza dei casi, lasciando una numerosità statistica bassa ai veri casi di malaffare? Personalmente confido proprio in quest’ultima ipotesi, sempre per motivi statistici e di appartenenza. Infatti, se la maggior parte del campione di amministratori pubblici fossero disonesti e il campione fosse sufficientemente rappresentativo dell’intera popolazione del nostro paese, sarebbe una sentenza su tutti noi italians.

Nel caso delle strutture abitative, soprattutto quelle in zone pericolose, si sarebbe forse potuto fare di più, ma annullare i rischi per tutti mi sembra una tesi più vicina all’illusione del piacere protendente al nirvana. Se ciò non è stato fatto è perché chi lo doveva fare è stato nei decenni incapace, disonesto e geneticamente dedito al crimine?

In un paese di circa sessanta milioni di persone, delle quali almeno il trenta per cento abita in zone a rischio idrogeologico, con un parco abitativo inadeguato a tali rischi forse è complicato mettere tutti in sicurezza. Luoghi come i sassi di Matera, i borghi medioevali del centro Italia, o le mille zone barocche del sud, attualmente abitate, potrebbero essere davvero messe tutte in sicurezza? E se non fosse possibile farlo o farlo a tappeto, quale sarebbe la soluzione? “Deportare” gli abitanti altrove, in luoghi non a rischio, magari in prossimità dei centri storici, ma in abitazioni nuove antisismiche?

Inutile appellarsi ad altri “più bravi di noi”. Il Giappone non ha il patrimonio storico edilizio che abbiamo in Italia. Quelle culture sono lontane anni luce dalla nostra e non per questo migliori o peggiori. Loro, come in altri paesi (USA, Australia, ecc.) hanno un’idea dell’invecchiamento degli edifici diversa. Un ospedale di trent’anni per loro ha un tasso di obsolescenza già intollerabile. Lo abbattono e lo rifanno, con criteri moderni e attualizzati.

Che dovremmo fare, abbattere e ricostruire tutti i nostri centri storici la cui messa in sicurezza è forse impossibile, magari ricostruendoli come a Las Vegas? Esistono sistemi tecnologici che permettono oggi la messa in sicurezza certa di edifici esposti ai rischi della natura e se esistono, che garanzie danno visto che in occasione di ogni grande terremoto diverse costruzioni cosiddette “antisismiche” implodono comunque come castelli di carta?

Le domande si affollano e mi rendo conto di essere stanco, cerco di riaddormentarmi e di combattere il caldo non pensandoci. Magari domani avrò voglia di pubblicare questo post e sentirmi anch’io come l’uomo dei cinque palloni, forse.

Author: admin

Michele Morandi nasce a Napoli nel 1964. Dal 1990 vive a Torino dove svolge la professione di Medico Igienista. Il suo indissolubile legame con Napoli, così come la cultura degli anni ’70, hanno fortemente influenzato la sua azione creativa. La trasposizione di immagini e vissuti del passato sono sempre diretti a un’interpretazione della realtà corrente. Nel 2013 pubblica per la Hever editrice L’uomo che non esiste. Il volume è stato presentato a Napoli presso la Saletta Rossa della Libreria Guida e a Torino al Salone Internazionale del Libro di quell’anno. Nel 2015 pubblica sempre per la Hever editrice Il teorema della memoria, presentato a Torino in anteprima presso il Salone Internazionale del Libro e a Napoli presso il Palazzo delle Arti. Nel 2019 pubblica per L’Erudita del Gruppo Giulio Perrone Editore Segui la marea. E’ autore del blog Il buco nelle nuvole, una pagina che oltrepassa la cortina nebbiosa del politically correct e del pensiero unico oggi imperante nel giornalismo e nella politica.